Alberto Veca
Le caratteristiche della scena, perché di una parabola teatrale mi sembra sia necessario parlare entrando in collisione con le opere di Cristina Cary, sono quelle della scala monumentale, in cui cioè il riferimento è al palcoscenico e agli attori che lo animano con un calibrato gioco fra realtà e finzione: lo spazio circostante è un contenitore anonimo in cui si afferma una architettura indipendente dallo spazio circostante e dalla sua fisionomia. In una piazza, un “vuoto” ambientale, non importa se provvisorio o durevole, un errore nel disegno urbanistico - dimenticanza o slittamento nel tempo della realizzazione del progetto - si installano le architetture effimere ma complesse delle giostre, l’eccentrica e inusuale condizione di una costruzione itinerante, reperto della cultura nomadica in un ambiente che all’opposto, da tempo, ha riconosciuto la realtà stanziale come quella più idonea e normale, e legge all’opposto la soluzione complementare come incapace di memoria, appunto effimera. Con una soluzione estrema, ma questo è pertinente al mondo dell’arte, segnale di una prefigurazione, ma anche di una condizione oppositiva rispetto alla norma, Cary realizza, assemblando reperti reali e forme di fantasia, macchine della fiera, giostre in prevalenza, assolutamente non funzionanti eppure, almeno sul piano delle intenzioni, assolutamente pronte a una loro particolare vita in quanto capaci di “imitare” la funzione per cui sono state costruite. Cary spoglia inizialmente le sue strutture metalliche dalla decorazione - un’operazione che non è cancellazione in quanto in altri momenti, in altre opere staccate fisicamente ma concettualmente connesse con quelle di cui si discorre, riappare il “décor” altrimenti censurato (ma anche il superfluo, un fantastico favolistico costituisce un elemento fondante della teatralità) - e ne evidenzia, sul piano impaginativo, la struttura portante. Assumendo proprio la giostra come soggetto principale di questo ciclo di opere l’elemento della centralità, della ripetizione e della conseguente iterazione identica dell’elemento cellula, raggi e seggiolini strutturalmente associati in una costruzione evidentemente ed essenzialmente funzionale, diventano le figure prevalenti dell’installazione. Si può allora avvertire uno spostamento di senso nel percepire queste realizzazioni: l’ordine, la serialità, la centralità della costruzione originale rispondono necessariamente alla funzione originale della giostra: il ruotare intorno al centro, la modularità, appunto enfatizzata dalla eliminazione degli aspetti decorativi, aggiuntivi, si pongono come condizioni strutturali necessarie per il funzionamento della macchina; l’essenzialità che ne deriva risponde a criteri assolutamente obbligati. Una volta astratti dal funzionamento - anche se Cary immagina le sue giostre funzionanti, o meglio, dotate del movimento (un tema questo ora affrontato solo teoricamente ma che risulta essere un luogo aperto per ulteriori sviluppi) - queste figure “emigrano” dallo stato funzionalità, e quindi dell’obbligatorietà, verso una situazione del tutto aleatoria. Lo spiazzamento, che porta Cary a limitati interventi e aggiunte tendenti a enfatizzare la struttura di base con l’aggiunta di particolari metallici o con lo stesso intervento cromatico, evidenzia le figure “nascoste” dell’architettura: paradossalmente la scala ambientale delle sculture prevede in modo evidente una lettura “da lontano” dell’ingombro complessivo, ma pretende anche una osservazione ravvicinata, in cui le connessioni e le aggiunte rispetto alla struttura di partenza siano colte nella loro interezza. Esiste allora una immagine “fantasma”, di come si presentava la macchina in un tempo precedente, quando cioè apparteneva al mondo della diretta funzionalità, che si sovrappone all’aspetto attuale. Cary costruisce per assemblaggio, in questo rispondendo a esigenze strettamente legate alla natura dei suoi materiali, già in partenza costruiti modularmente, in parte per una predilezione per la costruzione realizzata in momenti successivi, fatta anche di elementi fra loro incoerenti che proprio in questa nuova associazione contraggono allusioni diverse: e l’eterogeneità dell’origine degli elementi allude a una ridefinizione di senso di natura fantastica, la scoperta di una forma “nascosta”. L’assemblaggio è allora un procedimento “soffice”, in cui cioè il progetto sulla carta e la ricerca dei pezzi adeguati conoscono la strada tortuosa della ricerca, dell’attesa, della necessaria correzione del disegno rispetto a quanto trovato: l’idea forte, in virtù della quale la materia si piega alla figura e alla funzione designate viene sostituita da un più cedevole e attento procedere segnato anche dal caso. Il “già esistente”, sia pure con funzioni, usi diretti e indiretti diversi, diventa allora svelato protagonista; l’occhio e l’agire dell’artista si esercitano a conoscere e far riconoscere, nascosti sotto le vesti dell’oggetto d’uso, figure di una recita dalla trama imprevedibile. E siamo, come si vede, nel mondo della “simulazione”, del “doppio” la cui verità risulta legittimata una volta che la conoscenza compia i passi propri della dimensione fantastica.